Protagonisti: Marco Crescenzi, Fondatore e Presidente di Social Change School

In questa intervista Marco Crescenzi, Presidente di Social Change School, ci offre degli spunti di riflessione su come superare la crisi che stiamo vivendo a livello internazionale. Ci racconta il punto di partenza di SCS più di venti anni fa e di come si sia evoluta la scuola e la formazione per il terzo settore, che ormai deve essere di tipo manageriale. Non basta, infatti, la preparazione universitaria per lavorare con le ONG, ma serve una formazione co-progettata con le più importanti organizzazioni di questo ambito, per comprendere i reali bisogni del mondo del lavoro. Crescenzi ha parole belle ed affettuose per i tantissimi ragazzi incontrati nel suo percorso lavorativo, una vera linfa vitale ed tuttora fonte di motivazione, tutte persone dotate di grinta e voglia di cambiare il mondo. E fa una menzione speciale alle donne, il principale motore del cambiamento.
Buona lettura.

Secondo lei qual è il ruolo della formazione qualificata in questo preciso momento storico?

Questo è il momento del coraggio delle scelte. E l’unica scelta possibile, a 23 come a 40 anni, è investire tutto su se stessi e formarsi ai massimi livelli, per presentarsi forti del proprio sogno e solidi come profilo professionale. La formazione universitaria non basta.  Alle Organizzazioni internazionali non serve solo il titolo universitario. Sono interessate a competenze tecniche, hard e soft skill, capacità di problem solving e resilienza, che si acquisiscono in percorsi formativi “challenge”, che siano co-progettati con loro ed adeguati e pratici per il lavoro sul campo.
Chi cercherà mezze misure e scorciatoie formative sarà costretto a svendersi sul mercato, probabilmente destinato a non entrarci per anni e forse mai, o se occupato sarà a rischio di finire in cassa integrazione o perdere il lavoro. L’impegno e la “sovra-utilizzazione” delle risorse umane nel Terzo Settore è purtroppo destinato ad aumentare. Le organizzazioni saranno sempre più esigenti, in una logica di efficacia-efficienza, “the right people on the bus”. Cercheranno doti di resilienza, tenuta allo stress, coraggio, valorialità, vocazione, adesione alla causa. E quando il gioco si fa duro, i duri e le “dure” entrano in campo. Sono le donne oggi ad avere una marcia in più, sono allo stesso tempo più ambiziose e più umili. Interpretano meglio i tempi… da tempo.

Marco, per più di 20 anni lei ha profuso tanto impegno nella crescita di Social Change School e dei suoi Master, com’era il mondo quando ha iniziato a lavorare in questo settore e qual è la situazione attuale? Che evoluzione ha notato?

L’idea, nel 1997 fu: formiamo professionisti e manager Nonprofit preparati, che gestiscano le organizzazioni in modo più efficace e di conseguenza creino più  impatto sociale. Fu una gran fatica far capire che professionalizzarsi non voleva dire omologarsi o “perdere l’anima”. Ricordo che nel 2002, durante una riunione con la FIVOL (Fondazione Italiana per il Volontariato) ad un certo punto dissi in maniera alterata “Ragazzi scusate, ma un medico come fa a fare bene se non è preparato? Preparandosi per caso perde la sua vocazione, o non è proprio il contrario?? Capite che è lo stesso  per le professioni del non profit ed i manager del settore!”. Per me era chiarissimo perché ero stato imprenditore e manager for profit.

Quando nel 1998 pubblicammo con Sperling e Kupfer “Il Manager del Non Profit-e la nuova sfida dell’imprenditoria sociale”, (incredibile ma vero il primo libro del genere in Europa) non c’era coscienza professionale nei colleghi  di essere “manager”, tra l’altro con una complessità gestionale e politica molto maggiore che nel Nonprofit.
La nostra proposta culturale è ampiamente passata. Oggi l’offerta formativa è molto ampia, anche se quantità non vuol certo dire qualità.
Due evoluzioni forti a cui abbiamo decisamente contribuito sono quella della professionalità -managerialità femminile e dell’internazionalità.
Sul primo punto, ricordo che il 70% dei nostri studenti sono donne. Siamo stati tra i primi ad investire sull’idea  del management femminile, investendo e promuovendo l’idea di una leadership organizzativa che rompesse gli schemi propri di un settore lavorativo che era legato all’immagine di una dirigenza al  maschile.
Sul “respiro internazionale” degli operatori del Terzo Settore: abbiamo da sempre posto grande attenzione all’internazionalità di percorsi e contenuti, creato ampie connessioni internazionali in particolare con il Regno Unito e lo “stile anglosassone”, che rimane ancora di esempio su molte cose. Abbiamo introdotto in Italia il tema della Social Innovation proprio a partire da Londra, dove ho vissuto quasi dieci anni (ora, da 5 anni vivo a Madrid). 

Ogni anno lei intervista e fa colloqui motivazionali a centinaia di possibili corsisti di Social Change School, futuri professionisti e manager del terzo settore, quali sono i fattori che la colpiscono maggiormente?

Linfa Vitale.  Riceviamo migliaia di lettere di motivazione di persone – fantastiche per vocazione sociale, altruismo, passione, visione, caratteristiche unite però a determinazione, concretezza, voglia di strumenti gestionali.

Ogni colloquio per me è sempre uno “scoprire, sotto le pietre, il segreto delle sorgenti…” (Le Memorie di Adriano, M. Yourcenar). E le sorgenti in cui mi immergo sono sempre fresche.

Cito per dare un’idea un  passaggio di una recente lettera motivazionale di una ragazza di Napoli, tra le migliaia di richieste che riceviamo per i master: 
“I want to get to play roles at national and international level in the management and coordination of economic and social projects. I want to be a skilled project manager in international cooperation and development.”
Qui vediamo la solidità del sogno e la concretezza del progetto professionale. Nella parte finale di questa stessa lettera, abbiamo invece la parte valoriale e visionaria:
“Peace is not an UTOPIA. It’s something that we can promote, LIVE IN PEACE IS POSSIBLE! I want to believe in this and I want to all my best to make the others to believe in it too.”
Sono le doti di concretezza, determinazione, progettualità e visione che fanno la differenza. Per me gli studenti sono agenti di cambiamento sociale, non stanno solo “cercando un impiego”, ma vogliono “fare la differenza, cambiare il mondo.”

Per molti di questi ragazzi, dotati di un progetto forte, la migliore delle descrizioni è nelle parole dell’Adriano della Yourcenar:
“Ogni pietra rappresenta il singolare conglomerato d’una volontà, d’una memoria, a volte d’una sfida. Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno!

Per me e per la Scuola è una responsabilità molto grande, farsi carico di persone che in qualche modo mettono il loro futuro nelle nostre mani, con così con tanta fiducia.
Oggi i nostri corsisti sono professionisti e manager in tutte le più importanti organizzazioni  internazionali presenti in tutti i continenti- ed in quasi tutti i paesi del mondo, persino in Tibet. Una community internazionale che è una grande ricchezza per chi ne fa parte, costruita in questi oltre venti anni di impegno.
Perché, come ripeto spesso (perdonate autocitazione): “Non si tratta tanto di che di mondo lasciamo ai giovani ma di che giovani lasciamo al mondo”.

Qual è il consiglio che lei si sente di dare sia alle nuove sia alle “vecchie” generazioni per uscire da questa crisi?

Ho un rapporto amichevole oltre che professionale con la maggior parte dei direttori generali della ONG Italiane e di Terzo Settore. Quello che suggerisco loro è fare più  attenzione ai risultati (valutazione di impatto) e meno al fundraising (i soldi  poi vengono), a curare di più le risorse interne (sotto-pagate e sovra-utilizzate, anche se non certo a fini di profitto), ad occuparsi di più delle nuove povertà nel Nord e a formarne i cittadini, ad avere una visione più strategica e politica e meno da ‘tappabuchi’ ed emergenziale. Inoltre i temi dell’ambiente e dell’economia circolare sono poco considerati, siamo troppo “social” e troppo poco “green”.

Per le nuove generazioni, stesse raccomandazioni, ma soprattutto quelle di credere in se stessi con il massimo coraggio  e piena determinazione. Trasformare senso di ingiustizia e frustrazione in rabbia costruttiva. Essere generosi ma combattivi, camminare con “cuore in mano e occhi  aperti”,  sporcarsi le mani ma con l’anima pulita, buttarsi nel lavoro ma pensare molto, coinvolgersi a fondo ma mantenere un silenzioso distacco. (da qui potete prendere le frasi). Vivere a fondo, non esistere – come diceva Jack London in un celebre passo:
“Preferirei essere una maestosa meteora, con ogni atomo di me avvolto in una magnifica lucentezza, che un sonnolento ed eterno pianeta. L’autentico fine dell’uomo e’ vivere, non esistere. Io non sprecherò i miei giorni nel tentativo di prolungarli. Io userò il mio tempo”

Qual è il ruolo che il terzo settore dovrebbe ricoprire nel prossimo futuro?

Non quello di essere un tappabuchi delle falle prodotte dal “sistema” che non va in autobus e non si rende contro di quanto i cittadini sono sotto pressione e frustrati.

Creare cultura, modelli di valore, di cittadinanza. Essere meno erogatori di servizi, meno appalti e più politiche, più attori di governance, più autorevoli ed ascoltati nel dibattito pubblico. Andare nelle Scuole, conquistare territori fisici, mentali ed emotivi (ad es. rispetto alle mafie ed alle peggiori multinazionali).
Organizzazioni come Oxfam, Action Aid, Fairtrade, e più di recente MSF e Save the Children stanno cercando di fare di più, ma siamo ancora lontanissimi. Greenpeace e WWF devono tornare ad essere all’altezza della loro storia.  Abbiamo bisogno di campagne creative e di impatto anche culturale. Dobbiamo riuscire a far passare i donatori dal “progetto” all’organizzazione, che vuol dire essere sostenuti non solo se costruiamo un pozzo in Africa, ma anche se facciano advocacy e lobbying con i i governi in Europa per cambiare le politiche sanitarie.
In Nord Europa il Terzo Settore è ben rappresentato, coeso ed ascoltato- anche se sempre in un rapporto  fisiologicamente problematico con i governi- nel sud Europa troppo poco e male, troppe sigle,  troppe chiacchiere, troppi ego. Siamo tutti lillipuziani, che possono unire le forze contro un nemico comune: una perdurante, gigantesca ed intollerabile ingiustizia sociale. 

E infine, come vorrebbe vedere cambiare il mondo nel medio periodo?

Ahi, che domanda. Rimando su questo ai miei ultimi post sul Blog presso Il Fatto Quotidiano, su economia circolare ed il mio concetto di “new global”.  Tra un globalismo acefalo troppo squilibrato a favore delle multinazionali e della finanza irresponsabile, della libertà di commercio e di sfruttamento globale, e un sovranismo impossibile e demagogico, incapace di sfruttare le opportunità di un mondo interconnesso, c’è un’ unica alternativa possibile e di buon senso: un new global centrato su Comunità e cittadinanza attiva, su un’economia circolare e sostenibile, in grado di ricreare più profondi legami di comunità aperte e tolleranti, multietniche, in cui le differenze si trasformino in ricchezza locale e globale.

Il Terzo Settore ha un potenziale incredibile, ma solo se sa muoversi nel concetto di egemonia gramsciana, non “sconfiggere” avversari o evitare di interagirci, ma integrarli come partner, alle giuste condizioni,  nel proprio pensiero ed azione. Da soli non facciano nulla, abbiamo bisogno di una grande alleanza anche con il for profit– industria, finanza responsabile, mondo assicurativo. La comunanza di interessi è piena ed ha al centro il cittadino-consumatore responsabile, in grado di cambiare, con il cuore, il voto ed il portafoglio, politiche pubbliche e strategie industriali.

Ci da qualche indizio più personale di lei? Quali sono gli autori ed i libri che ama di più?

Tra gli autori, Jack London, che ho citato prima: ha fatto di tutto, avuto una vita spericolata ma molto sensibile: con le dovute differenze, mi ci ritrovo in pieno. 

Trai libri, prima di tutto, le Memorie di Adriano, che per me è stato un incredibile romanzo di formazione. Una metafora del potere per la costruzione del bello, di qualcosa che abbia significato. Chiudo citandone uno dei passi che mi è più caro:
«Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa delle città… Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito…” solo che il finale di Adriano e’ amaro (“…che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire).
Io, pur non credendo affatto nelle ‘magnifiche sorti, e progressive, dell’umanità’’ conservo un mio  gramsciano ‘Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà ’’. 

Sì, a fatica, ma sono ancora ottimista.

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