Paola Cocchi | HRM Amref Health Africa | 24 maggio 2016
La persona giusta al posto giusto. È questo l’obiettivo di chi seleziona e di chi viene selezionato. Sembra così facile e scontato, ed invece diventa sempre più spesso la “mission impossible” non solo per chi aspira ad entrare o a ricollocarsi nel mondo del lavoro mettendo a frutto la propria professionalità, esperienza e aspirazione, ma anche per chi vorrebbe trovare il corretto link tra domanda ed offerta.
Se poi si è alla ricerca di un cooperante, un espatriato, un operatore umanitario, si aggiunge a questo già complesso quadro la peculiarità di un lavoro che richiede requisiti alla “Mandrake”. Non può mancare la motivazione, se non altro a vivere per un periodo della propria vita in un contesto di diversità culturale, spesso caratterizzato da elementi di rischio in termini di sicurezza e condizioni igienico-sanitarie precarie; spirito di adattamento e capacità di gestire lo stress, proattività e grande capacità di lavorare in gruppo, con quel team di persone con cui spesso non solo devi lavorare, ma anche dividere il bagno e la cucina. Per non parlare delle competenze tecniche: conoscenza della lingua, linee guida dei donatori, abilità proprie della figura professionale ricercata. Mettiamoci anche l’esperienza di 3 o 4 anni…
Eppure incontro ogni giorno ragazzi e ragazze che desiderano questo dalla loro vita professionale e non solo. Disposti a studiare, formarsi, fare esperienza, partire. Forse a questi ragazzi bisognerebbe dire fin dalla scelta del percorso di studi quanto servano profili specifici, tecnici più che umanisti. D’altro canto dovemmo anche misurarne la capacità di imparare quello che non sanno, la motivazione, la volontà. Affiancarli a staff esperto per tentare processi di training on the job ad esempio, o come ONG stringere partnership con università, master, enti che si occupano di formazione e aggiornamento continuo.
Mi viene da dire allora che le sfide che si pongono forti più che mai alle ONG sono due: guardare di più all’esterno, aprirsi, fare rete e network, far circolare idee, scambiarsi competenze. Parlarsi, non solo quando servono delle referenze, ma confrontarsi continuamente su best practices e azioni comuni.
E guardarsi dentro. Sì, perché spesso la persona giusta collabora già con noi. Lo stagista, il tirocinante, il dipendente che aspira a fare altro da una vita, il local staff che collabora da anni sul field, il volontario che si mette a disposizione gratuitamente. Senza schizofrenia, senza snobbismo. Guardare all’interno e iniziare a gestire le proprie risorse. Staccarsi dal PC e parlare, girare per gli uffici; analizzare e pianificare, mappare i ruoli, le posizioni e le competenze ideali e già possedute dal proprio staff; assegnare attività e responsabilità chiare, per definire obiettivi a medio e lungo termine; valutare e dare feedback, non per giudicare, ma per poter costruire piani di crescita, attraverso formazione, percorsi di supporto o rafforzamento, oltre che per mettere in atto azioni motivanti.
Quante vacancies sarebbero “filled” se conoscessimo davvero le persone che collaborano con noi? Quanti collaboratori sono ora al posto sbagliato, e potrebbero essere perfetti per quella vacancy che proprio non si riesce a chiudere? Quante risorse lavorano da anni ricoprendo ruoli diventati obsoleti, ridondanti, o semplicemente disallineati rispetto alle nuove sfide del contesto?
Forse come HR dovremmo sentire di più la responsabilità di formare le persone, trasformare i ruoli, far crescere le persone all’interno di un processo di cambiamento del settore che è già in moto, a livello micro ed a livello macro ed internazionale. Sono processi lunghi e spesso faticosi.
Ma siamo proprio sicuri che non ne valga la pena?