Sandro Calvani | 09 Gennaio 2014
Lo Stato di diritto diventa un’opportunità per costruire pace
in tanti punti oscuri della storia umana.
“Il sovrano ama il popolo, il popolo desidera la felicità, e la fonte della felicità è lo Stato di diritto”. A prima vista questo proverbio, espressione della saggezza popolare in Bhutan, non sembra una grande espressione di quella spiritualità che molti si aspettano di vedere nei popoli che abitano le montagne del Tibet. A pensarci bene invece la certezza e il rispetto delle leggi sono davvero il fondamento più profondo di ogni convivenza, di ogni speranza e di ogni valore vissuto o creato dall’umanità. Per questo il dovere dello Stato di facilitare i cittadini nella loro ricerca della felicità è molto evidente in tutti gli articoli della Costituzione del Bhutan approvata nel 2008.
Non c’è comunità umana al mondo che non si riconosca in uno Stato di diritto, espresso in una Costituzione o in alcune leggi e regole, sia essa un club di giocatori di scacchi o una grande nazione con un miliardo di abitanti. Quando certe leggi o consuetudini risultano obsolete e non più accettabili dalla maggioranza, si cerca un consenso su nuove leggi più rispondenti al senso comune. La storia moderna dimostra che l’anarchia, la mancanza di leggi condivise e applicate, non genera alcuna libertà in più, genera solo e sempre il caos. E nel caos sono sempre i più deboli ad avere la peggio. Infatti dall’antichissimo codice babilonese di Hammurabi (1772 a.C.) o quello di Ur-Nammu (circa 2000 a.C) fino alla moderna Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) la prima preoccupazione delle leggi e della giustizia, dello Stato di diritto, è stata di proteggere gli orfani e le vedove o i deboli dalle oppressioni dei più forti.
Spesso in millenni di storia sono stati proprio l’ingiustizia diffusa, un potere pubblico amministrato in modo tirannico, intollerante o corrotto, cioè la mancanza di un credibile Stato di diritto, a causare grandi ribellioni e prese di coscienza collettive dei popoli per fare un salto di qualità in umanesimo e giustizia. Per esempio, sicuramente non sono stati i proverbi del Bhutan ad ispirare la Dichiarazione Americana di Indipendenza nel 1776, che poi ispirò anche la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Fu invece un profondo rigetto dell’arretratezza dispotica, dell’intolleranza politica e religiosa della Corona Inglese per le innovazioni sociali a ispirare quel meraviglioso testo che ha reso possibile la nuova politica e il sogno americano nei due secoli seguenti. È curioso, ma non incomprensibile a pensarci bene, che nella Dichiarazione di Indipendenza si trovino principi quasi identici alla millenaria cultura tibetana. Scrivono infatti i Padri dell’Indipendenza Americana: “Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. E aggiungono come pietra angolare del nuovo modo di essere dello Stato sovrano: “Per garantire questi diritti, i governi sono istituiti tra gli uomini, e [i governi] derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Sembra proprio una parafrasi del proverbio del Bhutan. Quindi un potere sovrano che non aiuta il suo popolo ad essere libero e felice, non ha ragion d’essere.
Nel 1948, l’emozione profonda e le ferite gravissime lasciate dalla seconda guerra mondiale, vissuta dal mondo intero come la più grande tragedia della storia, ispirò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Non sono io il solo internazionalista indipendente a considerare la Dichiarazione dei Diritti Umani come la Costituzione dell’Umanità intera. Infatti la Dichiarazione, 65 anni dopo la sua promulgazione, è oggi sottoscritta sia dalle 193 nazioni membra delle Nazioni Unite, sia dagli altri quasi cento popoli e nazioni non rappresentati all’assemblea delle Nazioni Unite. Tra questi ultimi, i 48 popoli e nazioni membri dell’UNPO (Un-represented Peoples and Nations Organization, www.unpo. org) basano tutte le loro rivendicazioni proprio sulla Dichiarazione dei Diritti Umani. Due terzi di tali popoli e nazioni non rappresentati all’ONU sono in Asia: sono popoli e nazioni che vedono i loro diritti fondamentali completamente schiacciati da nazioni, religioni o leader più forti. Molte delle 194 nazioni membra delle Nazioni Unite fanno finta di non saperlo o, se interrogate, fanno finta di niente. Basta pensare ad esempio allo stato di isolamento e “dimenticanza intenzionale” in cui vengono lasciati Taiwan, il Tibet, i Rohingya, il Kurdistan, i Moro, la Palestina, gli Uighur…
Sembra dunque una tremenda dannazione dell’umanità, il cercare da secoli regole di pace e giustizia, cioè un sempre più robusto Stato di diritto per tutti i popoli, per poi non applicare in casa propria quelle regole appena trovate e solennemente firmate. Bill Clinton, in visita in Myanmar nel novembre 2013, riferendosi alle oppressioni del governo e di alcuni gruppi di monaci buddisti contro i Rohingya, ha dichiarato che il mondo è letteralmente arcistufo di tutte queste lotte fratricide causate dall’intolleranza delle differenze tra i popoli. Parole che hanno lasciato di stucco due premi Nobel per la Pace suoi grandi amici: il presidente Obama, che non ha ancora trovato il modo di riconoscere la Palestina come nazione sovrana alle Nazioni Unite e la notissima leader dissidente del Myanmar Aung San Suu Kyi, che se la cava dichiarando che il problema dei Rohingya in Myanmar semplicemente non esiste, essendo dei bengalesi dal vicino Bangladesh.
Il proverbio del Bhutan che ho citato la dice lunga: è proprio il rispetto per la regola della legge, lo Stato di diritto, che potrebbe accendere la luce in tanti punti oscuri della storia umana moderna, soprattutto in Asia, dal Medio Oriente fino alle Molucche del Sud, oppresse dall’Indonesia. E ogni leader che non rispetta lo Stato di diritto, è decaduto automaticamente, perché non rappresenta più il popolo e lo Stato sovrano.
William H. Neukom, fondatore del World Justice Project (WJP) ed ispiratore dell’Indice Internazionale sullo Stato di diritto (www.worldjusticeproject. org) riassume così questi concetti: “Lo Stato di diritto è la base per le comunità di ogni forma di opportunità ed equità: è il predicato necessario per l’eliminazione della povertà, la violenza, la corruzione, le pandemie, e altre minacce per la società civile”. Per realizzare la sua classifica mondiale dello Stato di diritto il WJP utilizza una definizione basata su quattro principi universali:
1. Il governo e i suoi funzionari e agenti, sono responsabili in base alla legge.
2. Le leggi sono poche, chiare, pubblicizzate, stabili, e giuste, sono applicate in modo uniforme, tutelano i diritti fondamentali, compresa la sicurezza di persone e cose.
3. Il processo attraverso il quale le leggi sono emanate e applicate è accessibile, equo ed efficiente.
4. La giustizia è amministrata tempestivamente dalle istituzioni in modo competente, etico, attraverso rappresentanti imparziali ed indipendenti in numero sufficiente, che dispongono di risorse adeguate, e che riflettono la composizione delle comunità che esse servono.
Il sentiero per la felicità è dunque ben tracciato, per chi vuole incamminarsi.
Fonte: NP – Nuovo Progetto (numero di Dicembre 2013)