Sandro Calvani | 07 Gennaio 2014
Nel 1777 la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America sanciva solennemente i tre diritti fondamentali dell’umanità: il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Ed aggiungeva anche – in una riga seguente molto meno famosa – che “i governi sono costituiti tra le comunità umane per difendere questi diritti”.
Secondo il filosofo inglese Jeremy Bentham, considerato tra i fondatori della sociologia moderna, “la maggiore felicità per il maggior numero di persone è il fondamento della morale e della legge”. Ma nonostante la chiarezza cristallina del postulato di Bentham la felicità non è una pietra di fondazione così evidente e certa perché può essere interpretata in diversi modi in diverse culture; perfino all’interno della stessa cultura per diversi gruppi di persone essa significa cose completamente diverse.
Sono moltissimi, in tutte le lingue, gli altri sentimenti che spesso vengono usati come sinonimi della felicità, con l’effetto di aumentare la confusione sul suo significato preciso: allegria, beatitudine, brio, contentezza, esultanza, estasi, gaudio, gaiezza, giocondità, gioia, giubilo, godimento, ilarità, letizia, serenità, tripudio. Non a caso diversi nomi e cognomi comuni in quasi tutte le lingue dell’umanità sono derivati da questi sentimenti. Sono innumerevoli le forme di saluto e di augurio riferiti alla felicità che dimostrano l’enorme voglia dell’umanità intera di godersela e scambiarsela. Vista tutta la voglia di felicità che c’è in tutto il mondo e in tutti i secoli, mi aspetterei che avessimo imparato a conoscerla bene, a procurarla ed a misurarla con una buona approssimazione. Invece non è affatto così: la scienza e la sociologia della felicità sono poco certe e influiscono davvero poco sulle scelte politiche nazionali ed internazionali.
Lo stato di infelicità – diffusissimo nel mondo, in tutti i popoli e in tutte le fasce di reddito e di età – non è nemmeno considerato un serio problema di salute pubblica: tanto che si stima che alla ricerca di medicinali che curano l’infelicità (dentro la nostra testa) si dedichino meno di un decimo degli investimenti per nuovi prodotti di bellezza (fuori della testa) per gli occhi, la pelle, i capelli.
Non sorprende allora che per i governi e le organizzazioni internazionali sia davvero difficile non solo identificare gli indicatori di felicità, ma soprattutto scegliere delle politiche pubbliche che offrano buone opportunità di aumentare la felicità dei cittadini. Certamente la ricerca della felicità e la fuga dal dolore sono comunque i due grandi motori, sia emozionali che razionali, di ogni persona umana; ma non è detto che le comunità di persone, come città, imprese, famiglie, parlamenti sappiano in ogni momento se ciò che scelgono davvero aumenterà la felicità duratura del “maggior numero di persone”.
Nel mondo occidentale – e in generale nel Nord del mondo più ricco – il piacere temporaneo ottenibile attraverso ogni godimento immediato ha una grande capacità di attrazione per molta gente, anche se molti adulti hanno imparato che lasciare andare la propria mente e il proprio cuore alla ricerca spasmodica dei cosiddetti ormoni della felicità, dopamina, serotonina ed endorfine (come orexina e ossitocina) può provocare anche grosse dosi di stress. Nel mondo orientale – e in generale nel Sud del mondo più povero – sono più comuni la predisposizione e le pratiche quotidiane di collaborazione e ricerca collettiva della felicità; in questo senso un certo radicalismo viene dalla filosofia buddista che ritiene che un popolo e ogni persona si può liberare di ogni dolore, se solo rinuncia a cercare per se stesso ciò che desidera, il potere, la ricchezza, il piacere personale. Gli insegnamenti moderni del pensatore buddista Daisaku Ikeda rappresentano un buon esempio di questo modo di pensare, piuttosto diffuso nel mondo orientale: “È umanamente impossibile costruire la propria felicità sull’infelicità degli altri”.
In un mondo globalizzato è esperienza di molti ed è ormai provato che il cammino personale verso la felicità di ognuno di noi influisce su quello di ogni altro, non solo sulla felicità di coloro che ci sono vicini, ma anche indirettamente su coloro che nemmeno conosciamo. Già nel 1954 Abraham Maslow aveva proposto una fotografia delle dinamiche della felicità nel suo libro su motivazione e personalità, dove il massimo livello di illuminazione spirituale è in cima alle motivazioni che spingono le azioni umane.
Ma chi ha letto il libro di Maslow sa che in realtà la piramide non c’è; l’hanno aggiunta i sociologi che hanno interpretato ed applicato le sue intuizioni. Maslow non ha mai parlato di una piramide: il labirinto dei miliardi di sentieri dell’umanità verso la felicità sembra molto più ingarbugliato. Mi chiedo allora se forse la globalizzazione non suggerisca anche di capovolgere la piramide (che in pratica non c’è), mettere una buona ispirazione alla base di ogni motivazione al cambiamento sociale e cercare di vedere i cerchi concentrici attorno allo stato di felicità di ogni persona umana. Ne risulterebbe un caleidoscopio variabile ogni giorno, molto meno scalabile di una piramide, ma più invitante a tuffarsi generosamente dentro i miliardi di fatiche e speranze dell’umanità intera.
E ricordiamoci che un mondo fatto di soli asceti è certamente impossibile e sconsigliabile, ma qualche asceta estroverso in più tra i governanti, i leader del business, gli operatori della comunicazione, dell’educazione e delle relazioni internazionali, non solo è auspicabile ma sarebbe anche davvero urgente trovarlo.
* Nel buddismo il Nirvana è lo stato perfetto di pace e felicità, culmine della vita ascetica, che consiste nella estinzione dei desideri, delle passioni, delle illusioni dei sensi, e quindi nell’annientamento della propria individualità. In senso figurato, più genericamente, il Nirvana è uno stato di beatitudine, di appagamento, di puro godimento spirituale (dal Dizionario Treccani della Lingua Italiana).
Fonte: NP – Nuovo Progetto (numero di Novembre 2013)