Stefano Oltolini | 19 Maggio 2015
Inizio a leggere “La società a costo marginale zero” di Jeremy Rifkin sul volo Thai da Milano a Bangkok. 11 ore diurne, un’ottima occasione per affrontare le 458 pagine del nuovo lavoro di Rifkin. Nei giorni successivi sono a Yangon, in Birmania, e continuo la lettura nelle pause di lavoro e durante le visite alle pagode e ai Buddha dormienti.
E’ un libro assolutamente attuale, elettrizzante e colmo di prospettiva, molto utile per cercare di immaginare il prossimo futuro in questa era di disruptive changes. Per chi lavora nel sociale, ad ogni livello e in ogni contesto, rappresenta inoltre una grande iniezione di positività e autostima perché colloca quel che impropriamente viene definito “terzo settore” al centro di una rivoluzione tecnologica basata sul “commons collaborativo”.
Quel che sarà il commons collaborativo lo vediamo già crescere nelle esperienze in rete, dove la condivisione è ormai diventata più importante del possesso. I nuovi prosumers (geniale definizione dei consumatori del prossimo futuro) condividono informazioni inviando messaggi e telefonate gratuiti, contenuti (musica, intrattenimento), prodotti realizzati con le stampanti 3D a costi pressoché nulli. Condividono automobili, case, tempo e oggetti con nuove forme di sharing. Si finanziano le proprie idee innovative attuando azioni di crowfunding e ignorando le banche classiche. Producono in proprio energia rinnovabile e la immettono in rete, valorizzando la sostenibilità versus la profittabilità delle iniziative. Il motore di questa rivoluzione è e sarà sempre più l’Internet delle cose, cioè un’infrastruttura intelligente che intreccia comunicazione (basata sul web), produzione autonoma di energia alternative in rete, e internet della logistica, cioè l’applicazione dei big-data alla movimentazione delle merci e delle persone. L’azione combinata di questi 3 fattori sta facendo raggiungere livelli di produttività mai visti, e sta riducendo se non azzerando i costi marginali di numerosi beni e servizi. In quest’ottica il vecchio concetto di profitto, che ripaga l’investimento di capitale, va in crisi e mette in crisi il paradigma stesso di capitalismo.
Per Rifkin si sta generando un mercato ibrido in cui il capitale sociale sta assumendo la stessa importanza del capitale finanziario, in cui gli investimenti sostenibili soppianteranno i comportamenti consumistici, in cui il valore della condivisione supererà quello del puro scambio economico.
Senza profitto il sistema capitalistico classico va in crisi, affiancato e superato da un nuovo paradigma con cui dovremo sempre più imparare a convivere: il commons collaborativo globale interdipendente. I soggetti che già lavorano non motivati dalla necessità del profitto ma per offrire i propri beni e servizi sociali coprendo i propri costi e reinvestendo nella missione ogni margine operativo saranno i protagonisti di questo nuovo paradigma sociale ed economico.
Non vado oltre per non guastare la sorpresa, la freschezza e l’entusiasmo per i nuovi lettori. Rifkin seduce, esalta, fa sognare, oltre che ragionare.
Restano grosse questioni sullo sfondo, in primis il fatto che i posti di lavoro sembrano destinati a diminuire con il contrarsi dell’economia tradizionale, e il nuovo paradigma economico sembra voler superare il concetto tradizionale di lavoro salariato, ma è assai impreciso nel dire come. Immaginarci produttori di energia solare, finalmente liberi dall’assillo energetico, interessati allo scambio e alla partecipazione più che all’accumulo, concentrati sull’accesso, invece che sul possesso, è inebriante. Convogliare la rivoluzione in atto in un sistema che permetta a tutti di avere benessere, reddito e alta qualità di vita è (ancora) una scommessa. Lo scopriremo solo vivendo.