Andrea Stroppiana | 17 Febbraio 2015
Mia nonna faceva le schicce, delle frittelle che preparava non solo con acqua e farina come vuole la ricetta varzese, ma aggiungendo fiori di sambuco lasciati a bagno in un poco di latte e credo qualche goccia di arancio o limone. La ricetta si è persa, ed io ne ricordo soltanto un sapore squisito che mio figlio non assaggerà mai. Anni dopo la sua morte, ora che sono diventato padre, mi rendo conto della vastità della perdita che, al di la degli affetti, ho subito. Al dolore della scomparsa di una persona cara si aggiunge quello della perdita irreversibile di qualcosa di prezioso che tale persona sapeva fare e che più nessuno è in grado di replicare. Provai una sensazione simile, quando Nadia mi raccontò dell’esperienza che stava seguendo presso il castello baronale di Riano, alle porte di Roma, riguardo un progetto di musealizzazione della memoria e della cultura locale. Nel riflettere insieme a lei sulla corretta formulazione dell’obiettivo di quel bel progetto, ripensai al significato della perdita delle tradizioni, e sentii in bocca il sapore delle schicce di mia nonna.
A volte formulare gli obiettivi dei progetti che ci accingiamo a identificare, dopo aver deciso le azioni che vogliamo intraprendere, appare un lavoro da specialisti, laborioso, difficile, irto di dubbi, alternative, possibili sovrapposizioni. Si cerca a questo proposito, di ripetere negli obiettivi, le priorità dei bandi stessi per compiacere maggiormente gli enti finanziatori. Tale difficoltà, che molti hanno certamente sperimentato, mi spinge a riflessioni apparentemente teorico filosofiche, ma in realtà estremamente pragmatiche aventi implicazioni di enorme portata sia operativa sia morale.
Parlando di interventi di sviluppo, ritengo che anche un progetto scritto malissimo e formulato senza la conoscenza del più elementare gergo richiesto dagli enti finanziatori, possa essere un ottimo progetto purché sia concepito e realizzato con la volontà di migliorare, attraverso azioni determinate, situazioni di sofferenza o disagio di gruppi umani o singoli individui e riesca poi a farlo nella realtà. Ricordo a questo proposito la “olla popular” organizzata autonomamente a Bogotà da umili famiglie di quartieri poverissimi per accogliere con un pasto caldo, altre famiglie ancora più povere sfollate dalle zone di violenza e giunte nella capitale senza un soldo in tasca. Progetto bello e sostenibile non certo formulato con il quadro logico! Qui il motore di partenza era proprio la volontà di alleviare le sofferenze iniziali dei nuovi arrivati nei quartieri di estrema periferia, non quello di vincere un bando. Tale anelito o più semplicemente volontà di ridurre i disagi delle persone è però un ingrediente che di fatto esiste molto di rado al di fuori delle parole in quei progetti che nascono piuttosto spinti dalla presenza di finanziamenti e dall’anelito di aggiudicarseli. Il beneficio per i beneficiari viene cercato per ultimo nella formulazione, e come conseguenza logica di attività che si è già deciso di fare, oppure in risposta alla sollecitazione del finanziatore che predispone apposite caselline nei formulari. Anche gli stessi bandi europei descrivono i propri obiettivi mediante una sfilza di azioni finanziabili. C’è quindi veramente poco da stupirsi circa i frequenti fallimenti o, se preferiamo, l’inutilità di così tanti progetti finanziati. Né deve sembrare strano che i loro obiettivi immancabilmente assumono la veste di pure e semplici attività da realizzare (attrezzare un laboratorio, coordinarsi tra gli attori, formare le donne, sensibilizzare la società civile, aprire un centro d’assistenza…).
Allora tentiamo di proporre un nuovo elemento nell’accezione di Qualità di un progetto e proviamo per un momento, a mettere la Qualità del progetto in relazione alla Qualità dei suoi obiettivi e a loro volta questi in relazione alla capacità di toccare problemi seri ed importanti dei destinatari del progetto stesso (ciò che la UE definisce come uno degli elementi nella valutazione della Relevance di un intervento). Vorrei affermare che una individuazione seria dei problemi dei beneficiari si può garantire solo se si riesce a cogliere in essi l’elemento di sofferenza, disagio e frustrazione che attiene alla loro sfera emozionale. Secondo questa nuova interpretazione, applicando la proprietà transitiva, la qualità dei processi di sviluppo, potrebbe essere direttamente proporzionale al coinvolgimento delle emozioni che è stato investito nella loro genesi. In questa accezione che vorrei proporre, i due termini: definizione obiettivi e coinvolgimento della sfera emozionale applicati al concetto di qualità di una proposta progettuale sarebbero totalmente inscindibili nel senso che quest’ultima (la qualità) passerebbe necessariamente attraverso una stretta relazione tra obiettivi e emozioni nella quale questi derivano da quelle. Non credo che il coinvolgimento emotivo basti per formulare obiettivi e progetti di qualità, ma non dovrebbe essere né marginale né dato per scontato. Nella realtà manca quasi sempre. Se c’è soltanto emotività il rischio di scivolare nella pura assistenza è forte, ma se l’emozione si affianca alla professionalità e mantiene il posto che deve avere, allora si possono aprire le porte ad una progettazione di qualità. In altre parole formulare gli obiettivi di un progetto senza prima decodificare, toccare, sentire dentro di sé la sofferenza dei destinatari dello stesso è equivalente a voler descrivere un luogo senza averlo mai visto, o a voler fare la critica di un libro che non si è letto o di un concerto che non si è mai ascoltato.
La letteratura e la pratica con cui sono venuto in contatto negli ultimi 20 anni assumono spessissimo ben altri punti di vista nella connotazione degli obiettivi. “Formare persone”, “attrezzare scuole o ospedali”, “fare rete” sono alcuni tra i più frequenti obiettivi-attività che si riscontrano nei progetti che la Unione Europea finanzia con dovizia di risorse e appaiono sempre più sovente proprio in questa veste, nelle linee guida dei bandi. Questi finti obiettivi (sono azioni) in molti casi nascono in seguito all’analisi dei bisogni o fabbisogni, pratica che, se non realizzata con la dovuta professionalità, porta a risultati disastrosi, o quantomeno assai distanti dal pensiero che sto tentando di esporre. Allora troppo spesso un’analisi dei bisogni diventa una ricerca di ciò che “l’analizzato” o “l’analizzatore” ritengono possa servire per risolvere i principali problemi . E che cosa è questa need analysis se non ciò che tutti facciamo subito prima di recarci al supermercato? Con la penna in mano ci chiediamo di cosa abbiamo bisogno. Ho visto veramente tante analisi di fabbisogni nella mia vita: veri e propri elenchi (spesso nati da metodologie altamente partecipative) di desiderata; sfilze di soluzioni presenti nella testa dei soggetti che venivano interpellati, cose da fare una volta in possesso delle agognate risorse finanziarie, liste di raccomandazioni che si traducevano prontamente in altrettanti obiettivi di progetti. Ecco i PCP; Piece of Cake Projects, i progetti “distribuzione fette di torta”.
Vorrei contrapporre, con enfasi ed energia, l’analisi delle soluzioni e delle attività con l’analisi delle loro radici. Bisogni versus disagi, fette di torta versus obiettivi, needs against people. Forse il vero contraltare ai fabbisogni sono proprio semplicemente le persone; ma, e qui sta la grande differenza, intendo le persone PRIMA di trasformarsi e distorcersi in portatori di needs, PRIMA di diventare liste ambulanti di cose da fare o da acquistare; persone come sono realmente con i loro dolori, le loro frustrazioni, i loro disagi A MONTE di ciò che si potrebbe fare per alleviarli. Questa differenza temporale appena accennata e sottolineata come base di analisi per la formulazione di un progetto, è il segreto per avere dei problemi di qualità e, di conseguenza, degli obiettivi e dei progetti di qualità.
Cosa dovrebbe essere allora un’analisi degli esseri umani che si contrapponga e si collochi agli antipodi rispetto all’analisi dei loro bisogni? Dovrebbe essere quell’analisi che, come punto di partenza, porti il progettista a sentire dentro di sé la sofferenza, la frustrazione e il disagio degli individui che nel progetto chiamerà beneficiari, e a trasformare tali elementi di disagio nei veri obiettivi del suo progetto. Al di fuori di ciò non si può parlare di problemi, ma solo di assenza di possibili strumenti per risolverli. Detto più semplicemente, non è l’assenza o l’inadeguatezza della formazione a causare dolore emotivo al contadino a o al dirigente, ma piuttosto la difficoltà a vendere le cipolle o a gestire le finanze della sua impresa, se la formazione andava in quelle direzioni. Non ci può essere qualità vera negli obiettivi di un progetto (e di conseguenza nel progetto stesso) se questi non rispecchiano, esprimendolo in positivo, il dolore delle persone invece che le loro proposte di soluzione. Questo sentire e decodificare il disagio dei beneficiari per poterlo formulare come obiettivo ha una distanza abissale da ciò che abbiamo visto essere l’analisi dei loro fabbisogni. Quanto è ampia tale distanza? Concettualmente anni luce. Ognuna di queste 2 tipologie di analisi, da origine a prodotti molto, molto diversi .
Chi pensa che la costruzione di un ospedale sia la stessa cosa rispetto all’accesso alle cure sanitarie chieda l’opinione di qualunque donna africana, asiatica o sudamericana. E allora perché continuiamo a finanziare progetti che costruiscono ospedali senza verificare se le persone accedano ai loro servizi? Così come finanziamo i corsi di formazione senza valutare l’unica cosa che importa: l’utilizzo, dopo i corsi, del know-how acquisito, elemento questo che nei progetti non appare da nessuna parte forse perchè giudicato di scarsa importanza da chi li finanzia? In quest’ottica di obiettivo=attività, tutti i progetti diventano un successo dato che i loro obiettivi coincidono con quello che essi fanno e, in quanto espressione di attività, vengono quasi sempre raggiunti. Realizzare le attività, una volta ricevuti i finanziamenti, non è la sfida che conta, mentre verificare che le attività portino cambiamenti è l’unica ragione che dà un senso allo spendere i soldi ed è precisamente ciò di cui nessuno si prende cura. Su 13 progetti già finanziati che ho analizzato la scorsa settimana in nessuno (NEMMENO UNO) tale aspetto era neanche minimamente accennato, mentre in ogni angolo del formulario si dettagliavano le attività definendole e chiamandole con disarmante pressapochismo da progettisti professionisti in tutti i modi possibili (finalità, risultati, indicatori, obiettivi, outcomes, prodotti strategici!).
L’obiettivo si decide prima di sapere che cosa si farà per raggiungerlo, così come il problema esiste prima di aver deciso il come e con cosa risolverlo; pertanto l’obiettivo non può coincidere con le attività, non può essere in alcuna maniera collegato al verbo “fare”. Il dolore che provo quando ripenso alla perdita della ricetta delle schicce di mia nonna è l’elemento che dovrebbe dare l’imprinting agli obiettivi di un ipotetico progetto che 30 anni fa qualcuno avrebbe dovuto mettere in piedi, così come Nadia sta facendo con il museo della memoria di cui parlavo prima. Allora lasciamo la “salvaguardia della memoria” tra gli obiettivi e “l’apertura del museo” tra le attività, senza eliminare la prima parte (il perché lo si fa) lasciando solo la seconda (il cosa si fa). I due concetti: obiettivo e attività, hanno natura assolutamente e profondissimamente diversa. La stessa che esiste tra un mezzo ed un fine, tra una vaccinazione e il rimanere in salute, tra una bicicletta e la possibilità di raggiungere un luogo lontano. Allora forse, dopo mezzo secolo di fallimenti, elefanti bianchi e scatole vuote, è veramente giunto il momento di iniziare a valutare i benefici che si ottengono di fianco alle azioni che si fanno, e quindi di dire basta agli obiettivi-attività, di rifiutare di formulare (e finanziare) progetti che si limitano a fare rete locale, formare 20 disoccupati, distribuire fertilizzanti o attrezzare il centro di ricerca. Lasciamo tutto ciò alle azioni e cominciamo finalmente a fare progetti in cui spieghiamo anche il perché le facciamo. Mettiamo tutti gli elementi di cui abbiamo bisogno al posto giusto.
Non è certamente vero che una definizione sana e corretta degli obiettivi di un progetto basti per assicurare la qualità di quest’ultimo. Lungi da me fare una semplificazione così grossolana. Tra un buon progetto ed una corretta separazione tra obiettivi e azioni c’è ancora un intero mondo nel mezzo. Solo affermo con risolutezza che per avere un buon progetto e poterlo monitorare o valutare con intelligenza è imprescindibile tale distinzione concettuale così come è imprescindibile esprimerla nel documento con cui si richiede il finanziamento.