Laura Pacelli | 30 Giugno 2015
L’autore francese Salmon Christian, nel suo recente volume La politica nell’era dello storytelling (Roma 2014), ha polemicamente sostenuto come questa nuova disciplina, che tanto interesse sta suscitando nel mondo dell’imprenditoria, della politica e ora anche nel non-profit, altro non sia che l’arte “incolla[re] sulla realtà racconti artificiali”. Salmon ha messo in evidenza i pericoli insiti nell’eccesso di una disciplina che in realtà ha radici antichissime, il cui potere di incidere sulla realtà è ben noto e studiato con approcci diversi in epoche culturalmente e storicamente lontane. Chi abbia avuto occasione di leggere il celebre Encomio di Elena, scritto più di 2000 anni fa da Gorgia da Lentini, può ammirarne non solo l’efficacia retorica ma soprattutto la abilità nella costruzione di una contro-storia della Guerra di Troia che chiama in causa sentimenti, esperienze e reazioni che si suppongono comuni tra coloro che sono destinati a leggerla od udirla.
Lo storytelling infatti da sempre si sviluppa a partire dalla considerazione, divenuta esplicita nel mondo contemporaneo ma ben nota anche ai filosofi e scrittori classici, che per coinvolgere qualcuno nel proprio sistema narrativo occorre creare un ponte della familiarità, che consenta al fruitore di accedere ad un sistema simbolico ed emotivo che condivide almeno in parte. Di qui la necessità, nel creare una storia, di tenere presenti alcuni assunti fondamentali, che del resto tendiamo ad usare in maniera inconsapevole quando produciamo narrazioni spontanee: un racconto, per essere tale, deve possedere una sequenzialità narrativa (che non coincide necessariamente con l’ordine cronologico dei fatti), un’intenzionalità (ci rendiamo subito conto quando manca: avete presente l’espressione “non aver né capo né coda”?), una buona componibilità (cioè coerenza tra le varie parti e l’insieme) e un certo grado di referenzialità (poiché la mancanza di plausibilità diminuisce fortemente la possibilità di immedesimazione). Tuttavia la presenza di tutti questi elementi , e di molti altri ancora, come la costruzione di personaggi coerenti, o la originalità della trama, non garantisce che quella che inventiamo sia una storia efficace, e soprattutto lascia aperti i temi fondamentali della onestà dei contenuti, e della loro funzionalità allo scopo: se l’obiettivo di chi si occupa del Terzo Settore è la modificazione delle strutture sociale e del panorama valoriale nella direzione di una maggiore equità, trasparenza e valorizzazione delle risorse di tutti e di ciascuno, quale è l’uso corretto di uno strumento come lo story telling, che si presta ad essere il grimaldello di velluto della manipolazione?