di Gianfranco Marocchi | 9 maggio 2013
Mi è capitato negli ultimi tempi di parlare di innovazione sociale ad alcuni esponenti del terzo settore: in particolare cooperatori sociali, ma anche membri di organizzazioni di volontariato e di associazioni di promozione sociale.
A parlare di innovazione sociale, oggi, si è molto ricercati; il fatto di avere scritto qualche pagina in un libro ASVI mi titola, almeno nel mondo dei non adepti, come un quasi esperto del tema e mi chiamano. In queste occasioni ho l’impressione che la platea si attenda dall’innovatore un verbo inatteso, quasi esoterico; mi impongo di non usare termini inglesi e mostro, con esempi incontestabili, che loro che mi ascoltano hanno condotto i processi di innovazione sociale per circa trent’anni, anche se non l’hanno mai chiamata così.
Hanno inventato il lavoro come strumento di inserimento e la domiciliarità per gli anziani, hanno aperto i manicomi e inserito nella vita quotidiana le persone con disabilità, hanno inventato l’imprenditorialità sociale e il coinvolgimento di una pluralità di interlocutori, hanno partecipato alla rivitalizzazione di aree urbane degradate e promosso attività economiche di utilità sociale che prima non esistevano.
Nessuno di loro ha mai categorizzato queste trasformazioni sociali di grandissima portata di cui è stato protagonista come “social innovation”. Questione di linguaggio.
Ma di fronte a certi discorsi, terminologie, i miei interlocutori sembrano incerti e un po’ smarriti, talvolta scettici, più spesso sopraffatti da un complesso di inferiorità.
D’altra parte gli “innovatori” ci mettono del loro. Oltre a considerarli cordialmente alla stregua dei dinosauri, nei fatti considerano l’innovazione sociale in Italia al momento zero, come se nulla sino ad oggi fosse avvenuto per mano della società civile organizzata.
Si legga il documento Social Innovation Agenda redatto dal gruppo di lavoro del Miur, alla voce 4.1 “Pratiche, esperienze e casi di successo”; ma ce ne fosse uno di accenno al fatto che per trent’anni si è condotta una “via italiana all’innovazione sociale” invidiataci da tutt’Europa! (semmai qualcuno coinvolto nella redazione del documento leggesse questo post, solo una preghiera: evitate di aggiungere il paragrafetto classico sulla cooperazione sociale o sul terzo settore tanto per dare soddisfazione, va bene così, fa lo stesso).
Insomma, che dire, in conclusione? Certamente il percorso dell’innovazione sociale è accidentato, certamente è urgente che i soggetti che hanno per decenni portato la bandiera dell’innovazione in Italia continuino ad interrogarsi sull’evoluzione dei bisogni sociali, su come attivare la cittadinanza nel rispondervi, su nuove scommesse magari non solo più centrate sul welfare e così via.
Ma al tempo stesso è necessario riconciliarsi con la propria storia, inserire le nuove idee e le nuove forze che oggi si coagulano sotto la bandiera dell’innovazione sociale nel processo di sviluppo del terzo settore italiano, determinandone un’evoluzione – e magari una rivoluzione – che non potrà che fare del bene a tutti.