Dhebora Mirabelli | 27 Gennaio 2015
Lo dicono ancora una volta i risultati di autorevoli ricerche.
Se qualche anno fa era la Banca di Italia in positivo a misurare quanto potenziale inespresso in termini di PIL c’era dietro la mancanza di pari opportunità tra uomini e donne dichiarando che il raggiungimento del target di Lisbona in termini di percentuale di occupazione femminile (75%) avrebbe consentito in Italia una crescita economica stimabile intorno all’8%, ora il dato è global!
Il Global Gender Gap 2014 ci dice che è ormai chiara la correlazione tra parità di genere e performance economica. E’ la maggior partecipazione femminile al mondo del lavoro che rende più competitivo un Paese rispetto ad un altro. Questo dato è basato ora anche su un confronto attuale e non solo su un’ipotetica e fiduciosa stima di crescita futura.
Se così è per l’Italia non c’è grossa speranza.
Siamo al 114° posto rispetto a 142 Paesi analizzati per partecipazione economica delle donne. Insieme a Malta e alla Turchia facciamo parte dei tre Paesi al di sotto della media mondiale di partecipazione economica e opportunità lavorative.
Ma chi ha utilizzato il burqa per offuscare la bella forza competitiva del nostro Paese?
Se è ormai noto che le donne ai vertici e in ambienti di lavoro difficili migliorano le performance dell’azienda e Harvard Business Review non si stanca di spiegarci i segreti della leadership femminile, di cosa abbiamo ancora bisogno per accettare le pari opportunità di genere?
Accettare e non promuovere perché considero superflua ogni azione di marketing e imposizione di riserve protette per affermare un diritto ovvio ed economicamente lineare: sfruttare tutte le forze inattive nel nostro Paese per contribuire alla crescita e allo sviluppo economico.
Allora forse il problema culturale si può sconfiggere mediante l’uso di un linguaggio neutro e comune sia all’universo maschile sia a quello femminile per veicolare un messaggio ovvio se applicato ad altri teoremi di sviluppo economico.
Nella produzione di un bene se la domanda fosse superiore all’offerta e non vi è scarsezza di materie prime a nessuno verrebbe mai in mente di fissare delle quote minime di una materia prima rispetto ad un’altra. Il fine dell’impresa “titanica” (a quanto pare leggendo il rapporto internazionale ci vorranno altri 84 anni prima di raggiungere l’obiettivo della parità in Italia) è quella di soddisfare l’intera domanda attraverso la massimizzazione dell’uso delle materie prime e ottenere livelli più alti di produzione.
Tutti i manager si adopereranno per utilizzare il giusto mix per produrre più quantità possibili fino a rendere saturo il mercato. Massimizzazione della produzione per crescere: è questo il principio.
Usateci e sfruttateci tanto quanto siamo utili e competitive alla crescita del nostro Paese: in politica, nei contesti economici, in quelli educativi e formativi, ecc …
Non chiedo altro se non di abbandonare i termini della questione ridotti al mi piace o non mi piace, a ciò che è politicamente corretto e non o a quello che è eticamente giusto. Personalmente non mi interessa sapere se ti piaccio o no, se lo trovi giusto o sbagliato, corretto o non corretto assumermi in quanto donna. Ciò alla quale miro e auspico realmente è sapere se sei consapevole che posso migliorare la performance di questo Paese o se nel più piccolo posso contribuire a far crescere i tuoi profitti ad aiutarti a concludere “affari”.
Vorrei nella ricerca delle pari opportunità che la consapevolezza si assestasse sulla constatazione che c’è una domanda inespressa più banalmente da denominare “forza lavoro” prima ancora che “occupazione femminile” o peggio ancora “quote rosa”.
Nessun favoritismo, nessuna richiesta differenziale, nessuna preferenza: dalle pari opportunità alla par condicio.
Proviamo a parlare per favore la stessa lingua? Uniamo tutte le forze in campo per crescere ed uscire dalla crisi?