Adriano Noli | 23 aprile 2013
Da poche settimane sono l’orgoglioso affittuario, insieme a 7 amici, di una cascina a lungo abbandonata nel tortonese. Intorno ci sono altre cascine che da tempo lavorano per l’autosufficienza alimentare e per creare sul territorio un’economia di sistema. Prima ancora, negli ultimi due anni, ho seguito un progetto di agricoltura biodinamica di amici nel veronese. Ebbene sì.. Sto cercando di spostarmi in campagna!
Seguendo bandi ed opportunità, vedo come spesso Social Innovation significhi progresso ma anche recupero di modalità operative ‘dei nostri nonni’.
Può sembrare un luogo comune; ma cos’altro significa “creare un sistema di riduzione dei costi energetici in ambito agricolo facilitando l’accorciamento della filiera”, se non recuperare la dimensione territoriale che ha caratterizzato l’Italia per secoli? Riflettevo su questo proprio al master ASVI, parlando con i colleghi di quanti casi-studio di ottimizzazione aziendale – magari attraverso l’ingaggio degli impiegati in gruppi d’acquisto o azioni di prossimità e solidarietà reciproca – assomiglino al sogno di Olivetti o a quello che le Società di Mutuo Soccorso facevano cent’anni fa.
Cosa è andato storto nel ventesimo secolo?
La disgregazione degli imperi dopo la prima guerra mondiale e la nascita degli stati nazione hanno interrotto un percorso che stava sfruttando le innovazioni delle rivoluzioni industriali per creare benessere diffuso; il boom economico del secondo dopoguerra e le successive innovazioni (radio, televisione, refrigerazione e conservazione degli alimenti) lo hanno ripreso, ma hanno anche portato nelle mani di pochi nuovi imperi (economici invece che politici) il ruolo di innovatori e i capitali necessari. Oggi che gli stati nazione si uniscono in nuove macroaree (come la UE) e che internet ha portato una nuova rivoluzione tecnologica, per fare innovazione ‘si torna indietro’, a quel percorso interrotto.
A volte rimediare agli errori di percorso è la cosa più innovativa che si possa fare.