Simone Cicero| 21 Aprile 2015
Che cos’è l’innovazione sociale? Cos’è una impresa sociale? Quale è il ruolo del non profit e quale quello dell’impresa tradizionale nel generare quello sviluppo sostenibile – economicamente e socialmente, che tutti evochiamo?
Quali strategie nuove sono rese possibili oggi dell’innovazione tecnologica nel campo dell’impatto sociale?
Rispondere a questi interrogativi non è una sfida facile.
Sperimentare sul campo e imparare dai pionieri
Sono moltissimi oggi gli attori che stanno cercando di rispondere a queste domande, a modo loro, facendolo per lo più sperimentando: nuove soluzioni, nuovi modelli di sostenibilità, nuove partnership e collaborazioni, nuovi modi di gestire il personale e le risorse.
Il grande fascino dell’innovazione – e della sua accezione appunto, sociale – oggi sta infatti, più che in altro, nella natura sperimentale che molte di queste nuove forme, la totalità di quelle maggiormente impattanti e innovative, stanno adottando.
Quando parlo di natura sperimentale, voglio riferirmi al ruolo preponderante che l’attività sul campo – oltre la burocrazia, con le “mani in pasta” nei processi e nei contesti della società e dell’economia – ha preso e sta prendendo sempre di più nei programmi di questi innovatori.
È quindi oggi, l’innovazione, una grande questione culturale e di mentalità più che di “contenuti”: abbiamo ben chiaro, in fondo, quanto sia importante comprendere che non solo il non profit, ma anche il mondo produttivo, quello dell’impresa, debba ripensarsi con un punto di vista nuovo, uno che includa nella valutazione di sostenibilità, nel modello “economico e ecologico” tutti gli stakeholders della società.
Questo tema però, come molti lettori potranno confermare, è sul nostro tavolo – o meglio sul la nostra scrivania – di innovatori, da molto tempo: dunque cosa è cambiato oggi?
In questo ultimo decennio passato, l’esplosione della connettività sociale, la libera circolazione della conoscenza, dell’informazione e delle esperienze – grazie alla rete – ha, da una parte, contribuito a chiarire a tutti l’importanza della questione “sociale”, dall’altra reso visibili a tutti quei pionieri di successo che ce l’hanno fatta e che ce la stanno facendo sempre di più, trasformando i mercati, cambiando le regole del gioco in vecchie industrie, ribaltando i vecchi modi di guardare al non-profit.
Oggi tutti noi, dai “consumatori” ai manager, dai brand ai rappresentanti delle comunità e delle istituzioni, siamo parte di una discussione a cui non possiamo più sottrarci. Questa discussione che ha come obiettivo l’identificazione, la replicazione e il miglioramento delle pratiche più innovative e di successo non ci lascia più alibi: è l’ora di informarci, studiare e poi essere audaci, sperimentare con i servizi e i prodotti, con le forme organizzative e i modelli manageriali, con le strategie di Fundraising. È l’ora di condividere e di crescere – sia come professionisti che come aziende – non solo imparando dai leader, ma anche connettendosi con loro, collaborando, partecipando.
L’era della collaborazione
Un tratto chiave tuttavia accomuna questa ondata di ottimismo, trasformazione e sperimentazione: la consapevolezza che lo stesso strumento che ci ha abilitato a discutere e confrontarci – la rete (e la tecnologia) – oggi ci abilità a ripensare le organizzazioni, il modo in cui esse cooperano tra di loro e con le comunità di utenti.
Siamo entrati nell’era della collaborazione e del pragmatismo rivoluzionario: non è più tabù pensare che la burocrazia e i silos organizzativi, il rispetto cieco delle regole vecchie di decenni siano strumenti inadeguati per la portata dei cambiamenti in atto. Questo è il momento in cui rifiutare di fare le cose male solo perché così le abbiamo sempre fatte: è il momento di essere audaci, dimenticare gli “alibi” che spesso troviamo nel “non decido io”, “non mi riguarda”. D’altronde, decenni di applicazione di metodi per creare l’innovazione nelle Startup ci hanno insegnato che creare qualcosa di nuovo non è necessariamente un processo per cui abbiamo bisogno di molte risorse: l’innovazione può essere frugale, fatta di verifica delle ipotesi e massimizzazione dei risultati.
Così oggi, proprio nel punto di contatto tra non profit e impresa, tra globale e locale, tra industria e comunità partecipative c’è una enorme fetta di economia che può e deve essere trasformata. Questa economia va ben oltre la sostenibilità e l’inclusione sociale: invade tutti i settori produttivi e considera le suddette non più solo un contesto ben definito di applicazione ma un pilastro vero e proprio della visione dell’impresa che diventa sostenibile e partecipata senza rifiutare di occuparsi di processi chiave come la produzione alimentare, la manifattura o la mobilità. O qualsiasi altro processo produttivo.
Comprendere e mettere in pratica
Oggi intravediamo il potenziale di questi modelli collaborativi abilitati dalla tecnologia, a zero spreco, efficienti, collaborativi: qualcuno la chiama economia o società collaborativa, come faccio io, altri Sharing economy. Qualcuno si sofferma sul potenziale, altri sulle frizioni che queste rivoluzioni digitali di portano appresso quando si scontrano con industrie o legislazioni esistenti.
Quello che abbiamo cercato di mettere insieme in questo Master Mes- Master In Social Innovation, Social Business, Start up Sociale e Progettazione Innovativa è stato dunque un “corpo di conoscenze” (e di esperienze) che comprendesse da una parte strumenti utilizzabili per disegnare e progettare l’innovazione – anche e soprattutto quella sociale e collaborativa – dall’altra la consapevolezza che il “come” è oggi imprescindibilmente legato al “perché” e che quando si progetta, è sempre il caso di farlo mantenendo nel radar del progettista e dello stratega tutti i punti di vista (clienti, utenti, partner, società) e includendo nei processi sia il “dentro” che il “fuori” l’organizzazione.
Imparare dai modelli, applicarli localmente e globalmente, risolvere problemi chiave e affrontare industrie difficili da rinnovare e innovare in chiave sociale. Basta alibi, tocca a voi.