Sandro Calvani | 19 Novembre 2013
A metà Ottobre ho partecipato al summit mondiale della Caux Round Table, il club dei guru del capitalismo etico, che quest’anno si è riunito a Bangkok. Ero l’unico italiano presente. La tavola rotonda dei promotori del capitalismo sostenibile fu fondata nel villaggio svizzero di Caux nel 1986 e riunisce imprenditori di gran successo, gestori della grande finanza mondiale, ricercatori universitari, esperti di innovazione sociale e promotori di valori etici di fede cristiana, ebrea, islamica e buddista. Per la maggior parte dei 25 anni della sua storia la presenza di VIPs occidentali, soprattutto americani, è stata prevalente.
Credo che si possa dire senza offesa per nessuno che per almeno vent’anni le idee di capitalismo responsabile e guidato dai valori dell’umanesimo proposte dal Caux Round Table non sono state prese molto sul serio, anzi in alcuni ambienti della finanza e della politica globale facevano un po’ sorridere. Per nobile ed interessante che fosse, il principio che il business potesse e dovesse essere pure etico, cioè portatore e difensore di valori non monetizzabili, è rimasto piuttosto marginale rispetto al pensiero dominante del mercato e del capitalismo tradizionale che ha invece guidato il progresso globale con poche regole, in tutta la seconda metà del secolo scorso. Tutti conosciamo la regola fondamentale, l’ordine del giorno per ogni imprenditore di successo: Business is business, che vuol dire anche che i santi e i predicatori non saranno mai CEOs. Non è che il capitalismo non vedesse o non si preoccupasse della disuguaglianza crescente tra i più ricchi e i più poveri, ma la considerava un danno collaterale inevitabile ma mitigabile. Come premio di consolazione ai perdenti della libera competizione del mercato globalizzato, il capitalismo del XX secolo ha proposto solo grandi iniziative di aiuto ai poveri e grande simpatia per la filantropia, fino ad arrivare all’ultimo fiore all’occhiello: la responsabilità sociale d’impresa, detta CSR dall’abbreviazione in inglese, divenuta un must in ogni impresa che si rispetti, tanto importante quanto il marketing.
Una delle rivoluzioni copernicane del CSR è stata ispirata dalla scoperta della bottom of pyramid, cioè la rivelazione che anche i più poveri alla base della piramide della società possono divenire dei consumatori. Il marketing dunque deve guardare ai poveri con interesse e simpatia. Un distributore principiante della Coca-Cola mi ha spiegato l’idea brillante in modo semplice, forse supponendo che un professore di politiche dello sviluppo fosse anche un analfabeta in scienze economiche. “Se su un milione di persone i poveri sono 900mila, finora ci siamo concentrati a vendere una lattina al giorno ai 100mila che se la possono permettere. Così vendiamo 700mila lattine a settimana e ogni ulteriore crescita è difficile e satura il mercato. Ma se riusciamo a venderne anche una sola a settimana ai poveri, ne vendiamo così 900mila e in futuro abbiamo davanti una possibilità di espansione molto più grande. Una rete di pensiero e di azione CSR con simili ragionamenti non interessa affatto alla Caux Round Table ai quali la crescita importa poco o nulla se non è anche sostenibile, inclusiva, responsabile e rispettosa dei valori e dell’ambiente.
Steve Young, uno dei fondatori della tavola rotonda ed attuale direttore globale, ha proposto durante la consultazione di Bangkok di cambiare il concetto centrale di Moral Capitalism at work in un New moral capitalism at work. Gli ho fatto notare che sarà difficile farsi ascoltare o anche solo attirare l’attenzione del resto del mondo capitalista, definendolo -tanto per cominciare- vecchio ed immorale. Steve mi ha risposto: “Adesso discutiamo come presentare il nostro messaggio, però il capitalismo sfrenato che vediamo in difficoltà, immorale lo è di certo perché non accetta limiti”.
Dunque il nuovo ordine del giorno potrebbe diventare: The business of business is much more than business, gli affari degli affaristi sono molto di più che far solo affari. L’umanità si è chiesta per secoli, quanto fosse abbastanza per ogni singola persona, per una famiglia, per un’impresa, per una nazione: interpretato in modi diametralmente diversi, il tantum quantum, “tanto quanto basta” ha ispirato santi e guerrafondai, barboni e grandi finanzieri, politici amanti di regole e anarchici. Oggi il progresso senza regole e senza limiti ha finalmente scoperto che c’è un numero invalicabile. Il numero UNO, c’è un solo pianeta e una sola atmosfera attorno ad esso. La globalizzazione ha cancellato le frontiere e c’è un solo mercato e una sola umanità. Profit o non profit, valori umanistici o sacchi di valori in Svizzera, corrotti e governanti etici, restano tutti senza parole quando si accorgono che il tantum quantum globale è il numero più piccolo dopo lo zero. Ogni tentativo di superarlo ci azzererebbe.