Stefano Oltolini | 16 Settembre 2014
Una delle ultime parole entrate prepotentemente nel lessico globale afferente la società, il business e la globalizzazione è DISRUPTIVE, spesso accompagnata da CHANGE. Disruptive changes è un’espressione che potremmo tradurre con “cambiamenti dirompenti”, dove disruptive suggerisce la velocità, l’ineluttabilità, la forza epocale del cambiamento. La globalizzazione, la rivoluzione tecnologica basata sul web, i cambiamenti climatici e le turbolenze politiche internazionali sono tutte fonti di potenziale cambiamento e sconvolgimento.
Per una azienda prepararsi al cambiamento e sviluppare strategie di resilienza o adottare nuovi modelli di business al mutare dei tempi è un’esigenza di pura sopravvivenza: il caso della Kodak, per decenni leader nella produzione di pellicole e macchine fotografiche e fallita nel 2012 per l’incapacità di adattarsi alla rivoluzione della fotografia digitale, oppure quello dell’Encyclopaedia Britannica, che ha smesso la produzione travolta dalla rivoluzione dei contenuti free dopo 244 anni nel business della divulgazione scientifica, sono entrambi emblematici.
Anche il non profit globale si attende cambiamenti dirompenti, e studia le possibili strategie di adattamento. Un eccellente lavoro dell’International Civil Society Centre di Berlino, dal titolo emblematico “Riding the wave… rather than being swept away” (letteralmente: “Cavalcare l’onda… piuttosto che venirne travolti”) ha riunito le riflessioni di CEO e Directors di varie organizzazioni internazionali (International Civil Society Organizations – ICSOs) come Action Aid, Change, Greenpeace, Plan, Amnesty, Oxfam, e propone interessanti griglie di analisi e scenari futuri.
Pur riconoscendo che ad oggi non vi siano ancora stati casi di organizzazioni costrette a chiudere per la forza dei cambiamenti in corso, il paper identifica le sfide più impellenti e suggerisce strategie proattive per non essere vittima di cambiamenti inesorabili ma al contrario identificare opportunità di crescita e riposizionamento.
Tra le diverse sfide citate nel testo (di cui consiglio fortemente la lettura integrale) vorrei concentrarmi sulla DISINTERMEDIAZIONE, ovvero la progressiva perdita del ruolo di intermediazione svolto dalle organizzazioni della società civile del nord del mondo. Fino a pochi anni fa, (ma in molti paesi con minor indici di utilizzo informatico – come l’Italia – avviene ancora oggi), un individuo residente nel nord del mondo intenzionato ad aiutare persone e progetti nel sud del mondo doveva inevitabilmente passare attraverso una organizzazione intermediaria di fiducia (in Italia: ONG, associazioni onlus), che deteneva un’ottima conoscenza del campo di intervento, aveva le capacità tecniche per realizzarlo e si impegnava al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Di norma una o due volte all’anno il donatore riceve un report sull’andamento del progetto, una foto e la documentazione per ottenere le agevolazioni fiscali. Parimenti, un attivista o agente locale per denunciare al mondo intero una situazione o un abuso doveva necessariamente appoggiarsi alle stesse organizzazioni per far sentire la propria voce.
Di norma, per gestire e amministrare i progetti, comunicare azioni di advocacy e fare raccolta fondi, le organizzazioni trattengono una quota variabile, mediamente tra il 20 e il 30% del donato. Da un punto di vista di analisi strettamente organizzativo e di bilancio, tale “onere di intermediazione” rappresenta il cuore del business model delle organizzazioni intermediarie.
Oggi tutto sta cambiando molto velocemente. Con la rivoluzione digitale e l’accesso ormai globale a servizi web e social app resa possibile dagli smartphones, le persone possono in ogni parte del pianeta far sentire la propria voce, subito e con forza, realizzare e comunicare progetti, cercare investitori per le proprie idee, trovare soluzioni già sperimentate altrove. Allo stesso modo ci si inizia a chiedere perché un donatore dovrebbe attendere la fine dell’anno per avere un report stampato e inviato a casa propria quando può vedere in live stream cosa sta accadendo al progetto sostenuto, oppure parlare via skype direttamente con il project manager o ri-twittare una informazione che arriva direttamente dal campo.
Con l’emergere di organizzazioni sociali nel sud del mondo sempre più preparate non solo a gestire progetti ma anche a fare comunicazione e raccolta fondi tanto nel proprio paese quanto a livello internazionale, dialogando direttamente con Fondazioni e investitori internazionali, quale sarà il ruolo e il senso per le organizzazioni della società civile del nord del mondo? Negli ultimi anni si è già consolidata la tendenza di molti “donors” (UE, agenzie governative e fondazioni) a finanziare direttamente le organizzazioni locali, sia per risparmiare e utilizzare i fondi in maniera più efficace, sia per evitare accuse di neocolonialismo e scarsa legittimazione. Per citare un’esperienza personale, la Fondazione “aiutare i bambini” di cui dirigo l’area progetti estero ha scelto da oltre un decennio di privilegiare il dialogo diretto e la ricerca di partenariati con soggetti legalmente costituiti nei paesi di intervento, bypassando il ruolo intermediario di associazioni e ONG del nord del mondo, a meno che esse non dimostrino uno specifico “valore aggiunto” nei servizi da loro resi (es significativo cofinanziamento, unicità della proposta progettuale, situazione di emergenza etc).
La sfida della disintermediazione, cioè il ripensamento sistematico del proprio ruolo mediano tra i soggetti “beneficiari” degli interventi e la comunità di investitori in senso lato, è quindi servita.
L’ottimo studio della ICSC delinea due scenari limite per le organizzazioni intermediarie:
1. Gli sconvolgimenti avverranno sicuramente: la diffusione di internet continuerà nei prossimi anni raggiungendo pressoché ogni area del mondo, e il direct-giving basato sul web avrà un aumento esponenziale. I donatori, soprattutto i singoli individuals, tenderanno a prediligere le organizzazioni intermediarie che riescono a fornire il loro servizio (informare, trasferire, aggregare etc) a costo zero o costo assai inferiore all’attuale, offrendo nel contempo situazioni per un coinvolgimento diretto via crowdfunding e social networks. In questo scenario, le organizzazioni tradizionali rischiano di perdere completamente il proprio ruolo intermediario o si troveranno comunque a dover modificare profondamente la natura, la tipologia e il “costo” del servizio che offrono.
2. Avverranno solo cambiamenti “minori”: negli ultimi 5 anni numerosi nuovi soggetti più “virtuali” come Kiva o Global Giving o GoFundMe sono apparsi proponendo i loro servizi di intermediazione a costo zero o molto basso (fino al 5%), eppure ciò non ha (ancora) avuto effetti negativi sulle forme tradizionali offerte dalle ICSO. Questo accade poiché viene riconosciuto e apprezzato che le organizzazioni intermediarie propongono programmi complessi dove anche le donazioni individuali possono avere un impatto strategico significativo e viene garantito l’utilizzo più appropriato, efficiente ed efficace dei fondi donati. In questo scenario, il ruolo intermediario delle ICSO continuerà ad esistere, per lo meno fino a quando le organizzazioni saranno capaci di spiegare e giustificare il “valore aggiunto” e i benefici del loro operato e a giustificarne così i (maggiori) costi di intermediazione.
Il dibattito è aperto, ma pressoché tutte le più grandi organizzazioni convengono che svariati “disruptive changes”, inclusa la disintermediazione, sono ormai in corso, e che occorra ad ogni livello tramutare la sfida in opportunità. Prepararsi ai cambiamenti significa aumentare le capacità di resilienza delle organizzazioni, mutare al cambiare dei tempi, divenire quindi soggetti attivi di disruption, “cavalcando l’onda – riding the wave”, piuttosto che venirne travolti.
Il gruppo di lavoro identifica i cambiamenti chiave a livello di governance, di management e di cultura organizzativa, e riassume 3 prototipi di strategie manageriali per guidare la propria organizzazione in tempi di forti cambiamenti:
a) L’”active disruptor” è colui che anticipa i tempi e compie cambiamenti radicali per rendere la propria organizzazione soggetto attivo di disruption, piuttosto che cercare di limitare i danni o mitigarne gli effetti. Questo approccio risulta assai più semplice per le organizzazioni nuove con maggior presenza “virtuale” e bassi costi di struttura, mentre per le ICSO tradizionali presuppone ripensamenti radicali del proprio posizionamento. Una ICSO tradizionale che si fonde con una “virtual CSO” e propone innovativi servizi a costi dimezzati può essere un buon esempio.
b) L’”opportunistic navigator” studia attentamente il cambiamento degli scenari, gli strumenti e i tentativi delle altre organizzazioni, ed è pronto ad investire su nuovi ruoli e modelli appena sembrano funzionare.
c) Il “conservative survivor” investe invece sulla sua storia, reputazione e fidelizzazione. Cercherà di tenere la propria organizzazione il più possibile isolata dai cambiamenti che stanno avvenendo difendendo i risultati raggiunti negli anni.
Alla data attuale la gran parte delle ICSOs più grandi si dichiarano attente rispetto al cambiamento e consapevoli degli sconvolgimenti in arrivo, ma in generale restano in una posizione di “wait and see” , preparando nel contempo le loro strutture a maggior flessibilità, resilienza e attitudine al cambiamento.
Il report si conclude con una “call to action”, cioè una raccomandazione alle ICSOs di non ignorare i cambiamenti in atto, ma al contrario di tramutare le sfide in opportunità, per ripensare il proprio ruolo e gli strumenti finora utilizzati.
Il mio personale auspicio è che anche nelle organizzazioni medio-piccole italiane che fanno solidarietà internazionale, bellissima caratteristica del nostro Paese, si inizi un dibattito vivace e produttivo, che possa dar spazio alle tante nuove idee dei giovani che lavorano o fanno volontariato in esse, e che non abbia paura di spingersi fino al ripensamento complessivo della missione e dell’organizzazione.