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Disequilibrio, la situazione globale

Danilo Castagnetti | 14 giugno 2016  

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Italo Calvino, “Le città invisibili” (1972).

 

Oggi accanto alla devastazione degli habitat naturali del Pianeta stiamo assistendo all’affermarsi di crescenti squilibri sociali. Oltre a non aver saputo dare risposte a quella gran parte di Umanità che non ha mai potuto aspirare ad una condizione di vita dignitosa, osserviamo un gravissimo arretramento delle condizioni di vita e dei diritti anche nei Paesi maggiormente sviluppati.

L’umanità non può più permettersi di non agire. Abbiamo avuto una grande opportunità negli anni del massimo sviluppo economico, dal dopoguerra alla fine degli anni ottanta, si sarebbe potuto utilizzare la spinta economica e produttiva per creare uno sviluppo più equilibrato, ma non è avvenuto, al contrario abbiamo assistito alla totale mercificazione di terra, lavoro e moneta contro la quale Karl Polanyi[1] ci aveva messo in guardia sul finire del secondo conflitto mondiale.

Dalla rivoluzione industriale in poi è stata portata avanti una drammatica privatizzazione e sfruttamento del Mondo che, negli ultimi decenni, ha conosciuto uno sviluppo esponenziale. La crisi che ci ha investiti e che stiamo vivendo è la drammatica testimonianza di un sistema che va ripensato.

Esistono beni comuni che non lasciano dubbi sulla loro necessaria preservazione: ad un primo livello essenziale tutte le comuni risorse naturali, ad un secondo livello, che riguarda più strettamente l’uomo, tutto ciò che è necessario per poter vivere con dignità, libertà ed equità gli uni accanto agli altri (istruzione, sanità, giustizia e lavoro primi fra tutti). Non dovrebbero esistere i due livelli ma uno solo.

L’umanità avrebbe dovuto soddisfare i propri bisogni compatibilmente con la preservazione delle risorse che il Pianeta gli ha messo a disposizione.

Chi si è molto occupata di beni comuni, seppure di comunità di piccole dimensioni, è stata il Nobel per l’economia Elinor Ostrom. Essa ha confutato la dicotomia dominante tra Stato e Mercato, dimostrando che esistono alternative efficienti ed equilibrate per gestire le risorse collettive. La privatizzazione delle risorse naturali collettive non sempre è possibile, e in ogni caso non risolve il problema del loro utilizzo equilibrato, semmai spesso lo ha aggravato. Anche lo stato non ha particolarmente brillato nella gestione dei beni comuni. Esiste una terza via, afferma la Ostrom, ed è l’auto-gestione di una risorsa naturale collettiva da parte della comunità.

In tutti i paesi e in tutte le culture esistono istituzioni collettive, cioè insiemi di regole condivise, che hanno permesso alle comunità locali di auto-gestire sistemi di risorse ambientali complessi, in modo efficiente e sostenibile, per periodi di tempo molto lunghi.

Pierluigi Ciocca nel libro da lui curato con Ignazio Musu “Natura e Capitalismo un conflitto da evitare” indica proprio il capitalismo come la soluzione ai problemi che lo stesso ha provocato: iniquità, instabilità, inquinamento. Secondo l’autore è la formidabile macchina del capitalismo che, attraverso la produzione di ricchezza e innovazione, potrà porre rimedio a questi problemi. Personalmente ritengo improponibile affidare la salvezza dell’Umanità proprio e solo al sistema che l’ha portata sull’orlo del baratro.

Le affermazioni di Ciocca rientrano in quella retorica sulla sostenibilità che riempie i vari discorsi sulle buone intenzioni che, per svariati motivi, non trovano mai un’ effettiva e reale messa in pratica. I vari rapporti (Club di Roma 1972, Brundtland 1987), i vari summit, le commissioni, conferenze e protocolli sull’ambiente (Stoccolma 1972, Rio De Janeiro 1992, Kyoto 1997, Johannerburg 2002, Copenhagen 2009, Parigi 2015, per citare solo alcune delle tappe principali), sono stati importanti momenti di riflessione, ma hanno portato a risultati di modesta entità.

Le varie istituzioni internazionali, che si occupano di ambiente (UICN, UNESCO, FAO), non sono riuscite ad incidere sulla situazione più di quanto sia riuscita l’ONU, dalla sua istituzione ad oggi, a risolvere i problemi di povertà e pace nel Mondo. La situazione non risulta essere confortante.

Per riuscire ad arrestare il processo autodistruttivo, su cui da tempo ci siamo tutti incamminati, non basta fare retorica, si deve agire. Continuare a nutrire una smisurata fiducia nella capacità umana di risolvere i problemi non può portarci da nessuna parte, considerato il fatto che è l’umanità stessa ad essere il problema. La natura comunque, come ha sempre fatto, risorgerà in nuove forme, è la società umana che è destinata a collassare proprio perché nel tempo si è progressivamente staccata da essa.

Dovremmo risvegliarci dall’attuale stato ipnotico che ci rende ciechi al fatto che la natura non è staccata da noi per essere sfruttata a nostro piacimento, ma bensì che noi facciamo parte di un sistema vivente in cui tutto è collegato e dove ogni nostra azione provoca delle conseguenze che possono compromettere la nostra stessa capacità di sopravvivere.

Lo stato attuale della situazione globale esige un maggiore equilibrio a livello ambientale, sociale ed economico. Come tutto ciò possa esser compatibile con un sistema capitalistico basato sulla predazione di risorse, sulla competizione senza limiti, su uno smodato individualismo e consumo, su una crescita e produzione infinite a fronte di un Pianeta delimitato, che possiede risorse finite, è tutto da valutare. Questa valutazione non può prescindere da equilibrio, consapevolezza e senso di responsabilità e soprattutto dal produrre azioni concrete e immediate che possano provocare una decisa inversione di rotta.

Occorre passare dal competere per l’accesso a risorse scarse a collaborare per ottimizzare l’utilizzo delle stesse a beneficio delle generazioni presenti e future. È necessario passare da una modalità di sfruttamento mineraria, ovvero fino all’esaurimento delle risorse, ad una loro estrazione responsabile, ed equilibrata, soprattutto per quanto riguarda quelle rinnovabili, per non superare il loro limite di sostituzione e di rigenerazione.

Conoscere, dibattere, non basta, può essere funzionale per mettere a tacere la propria coscienza, avendo l’impressione di aver così assolto il proprio compito, ma in realtà così facendo tutto resta solo sullo sfondo, sul piano della retorica. Occorre agire, agevolare quel salto cultuale che attualmente governi ed istituzioni non sembrano in grado di produrre.

Di fronte al fallimento di stato e mercato, o alla loro connivenza nell’aver provocato l’attuale situazione, l’idea di fondo è che si possa superare la dicotomia che esiste tra loro e che fino ad oggi non ha prodotto soluzioni equilibrate, spostando l’azione sulla dimensione locale. L’idea è che siano i territori, interconnessi in reti, in modo autodeterminato e solidale a cercare e gestire gli equilibri nella comunità e con l’ambiente. La somma di sistemi e soluzioni locali efficienti e solidali non potrebbe che portare alla risoluzione dei problemi anche su scala globale.

Il mercato potrebbe essere corretto dall’ingresso di nuove imprese no profit, in libera concorrenza con le imprese for profit. Questo tipo di impresa, senza fini di profitto, che potremmo definire sociale (Muhammad Yunus)[2] responsabile e cooperativa, avendo come obiettivi il sostentamento della forza lavoro, il rispetto dell’ambiente e il reinvestimento in migliorie e innovazione degli avanzi attivi, potrebbe recare maggiore stabilità ed equità al mercato. I consumatori, avendo a disposizione diverse alternative, potrebbero orientare i loro acquisti di servizi e prodotti sulle imprese che diano le maggiori garanzie di rispetto per lavoratori e ambiente, eliminando così dal mercato quelle dotate di meno scrupoli.

Uscire dall’attuale sistema economico è sicuramente un’utopia, ma attenuarne i deleteri effetti sugli equilibri sociali, economici ed ambientali è altrettanto e sicuramente praticabile.

 

[1] La grande trasformazione” 1974 Einaudi Torino.

[2]Muhammad Yunus 1940 economista e banchiere bengalese premio Nobel per la pace 2006.

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