Sandro Calvani | 12 Novembre 2013
Secondo la filosofia e la scienza cinese, comuni a molte altre culture asiatiche, Yin e Yang rappresentano l’interdipendenza tra ogni valore e disvalore, crisi ed opportunità, forza e suo opposto. Le due componenti sono unite, non separate, in un insieme dinamico.
La prima volta che ho sentito qualcuno applicare il concetto di Yin e Yang a una sfida tra diritti umani fu nell’anno 2000 in una situazione non comune. Facevo visita a un bordello in Cambogia dove la polizia aveva appena arrestato la vecchia proprietaria e liberato le ragazzine, alcune minorenni, che venivano sfruttate per il sesso commerciale. L’indagine era appena cominciata. Ad interrogare la mamàn erano poliziotti non addestrati per il crimine di traffico di persone. Le domande erano dunque generiche. Una delle risposte era sorprendente: “Perchè lo faccio? Anch’io come voi [poliziotti] vivo il mio Yin e Yang. Faccio questo lavoro per vivere e mantenere i miei figli agli studi: il più grande studia da avvocato in Australia e fa il volontario per difendere gratuitamente i diritti degli immigrati perseguitati dal governo. Mia figlia studia da infermiera a Osaka, ma la sua borsa di studio paga solo un terzo delle spese. Io pago un terzo e il resto se lo paga lei con qualche cliente nel campus nel fine settimana…”. Allora mi chiesi: “C’è sempre e comunque un valore positivo o un buon effetto associato con ogni malefatta? E guardando il Yin e Yang, dall’altra parte c’è sempre un lato oscuro in ogni bene fatto bene?”. La mia esperienza dei drammi dell’umanità in quattro continenti poveri ha fatto crescere la mia umiltà: credo che siamo tutti un po’ santi e un po’ peccatori. Quindi la vera lotta per il bene comune non dovrebbe occuparsi di vincere i malfattori, i cattivi o i nemici, in alcun settore di lavoro, ma sta piuttosto nel massimizzare il bene fatto bene, minimizzare i disvalori e soprattutto eliminare i tanti muri di Berlino che dividono le società civili al loro interno e impediscono ai popoli di esprimersi davvero ed essere ascoltati. Perfino dove le espressioni del male vanno tenute distinte e distanti, creare occasioni di dialogo può offrire delle soluzioni.
Un summit di 450 imprenditori asiatici sulla corresponsabilità sociale delle imprese, svoltosi a Bangkok il 17-18 settembre, ha analizzato un altro modello particolare di Yin e Yang piuttosto comune. Si tratta della collaborazione crescente tra business e lotta alla povertà. La Coca-Cola è giudicata come un modello eccellente di sviluppo inclusivo e di crescita responsabile: non sarà certo un moderno san Francesco, ma l’impresa ha messo al suo attivo un effetto positivo su migliaia di famiglie di lavoratori poveri. La Double A, una grande impresa produttrice di carta per fotocopie, ha convinto decine di migliaia di produttori di riso a piantare alberi per cellulosa attorno ai loro campi. Così nessuna foresta viene toccata e i produttori di riso raddoppiano il loro reddito. L’impresa farmaceutica GlaxoSmithKline GSK reinveste il 20% del proprio profitto in progetti per villaggi nei Paesi più poveri. Nessun azionista se ne è mai lamentato, perché l’impresa ha chiarito bene che quello è il suo modello di business. In percentuale è un aiuto allo sviluppo 40 volte maggiore rispetto a quanto fa l’Italia che restituisce ai Paesi poveri meno dello 0,5% del suo PIL. Come cambierebbe il mondo se la metà delle imprese o delle famiglie dei Paesi ricchi imitasse la GSK?
Un appello comune a molti degli impresari asiatici è puntato sulla necessità di smetterla di etichettare buoni e cattivi tra il primo settore della società, cioè il mondo produttivo, il secondo settore (le amministrazioni pubbliche e i governi) ed il terzo settore del no-profit. Smetterla cioè di considerare le imprese come i malfattori o sfruttatori del malsviluppo, il terzo settore come il messia della salvezza dei popoli ed il potere dei governi come un cumulo di incompetenti e corrotti dai quali sia l’impresa che i popoli fanno bene a stare alla larga. Le buone pratiche di corresponsabilità dimostrano che una collaborazione sincera e capace di vero dialogo tra i tre settori può essere efficace e sostenibile.
Gli obiettivi d sviluppo del millennio, affermati all’unanimità dalle Nazioni Unite nell’anno 2000, si sono proposti di veder nascere un mondo diverso entro il 2015. Con la povertà estrema in via di estinzione, una forte accelerazione dell’educazione e della salute pubblica, garanzie per il lavoro decente e un habitat sostenibile in condizione di cambio climatico, i rischi più gravi per la sopravvivenza dei popoli più poveri potrebbero essere scongiurati in via definitiva.
Tutti gli obiettivi del millennio, chiamati MDG, erano stati però proposti e definiti da esperti ed istituzioni lontane dai luoghi dove la povertà è vissuta giorno dopo giorno e rappresentavano soprattutto una volontà dei Paesi donatori.
Non c’era stata una consultazione credibile dei popoli più poveri. Questo difetto di fabbricazione, in pratica l’inesistente protagonismo dei popoli, è dunque la principale innovazione che il nuovo consenso globale sullo sviluppo sostenibile vuole realizzare dopo il 2015.
Dopo averla auspicata per decenni, sembra davvero forte una nuova volontà di mettere i popoli al centro di qualsiasi politica o strategia di sviluppo. Se quel che si accorda e si dichiara oggi succederà davvero, vedremo nascere e divenire dominante un nuovo progresso partecipativo ed inclusivo, grazie a processi di trasformazione dei modi per decidere e governare molto più trasparenti.
Ogni azione di sviluppo del territorio e della comunità potrebbe scaturire da un atto di consenso libero, previo ed informato (chiamato FPIC dall’inglese Free, Prior and Informed Consent) che gli abitanti di un villaggio o di una regione dovrebbero definire, prima che qualunque altro attore di sviluppo prenda l’iniziativa. Si tratta di una vera rivoluzione (chiamata delle tre p) del modo di cooperare tra governi (potere), popoli e settore privato, compreso il settore finanziario (profit), che diventerebbero dunque co-responsabili dello sviluppo sostenibile e ugualmente coinvolti nel disegnare, realizzare e valutare le trasformazioni economiche, sociali e politiche che vuole la gente.
Cambiare le società in modo da renderle interamente collaborative per il bene comune funziona solo attraverso un profondo cambiamento culturale dove il rispetto dell’ambiente naturale, il benessere, la felicità di tutti, la pace e la giustizia diventano valori condivisi non solo dalle minoranze etiche ed informate ma da tutto il mondo delle imprese, della finanza, delle istituzioni e dei media. Durante il summit asiatico un imprenditore mi ha chiesto: “In questa prospettiva di trasformazione rapida e profonda quando e quanto dovremo cambiare?”. Ho risposto: “Nel cammino verso il futuro immediato delle società civili e delle economie il cambiamento è l’unico processo che resterà. Tutte le altre certezze di oggi invece cambieranno. La trasformazione è già cominciata; la chiamano innovazione sociale, ma in realtà è un processo di cambiamento e adattamento all’unico sistema sostenibile di sopravvivenza del pianeta Terra”.
Fonte: NP – Nuovo Progetto (numero di ottobre 2013)