di Laura Taraborrelli | 11 aprile 2013
Siamo in Ecuador, nel parco nazionale di Yasunì, dove le Ande incontrano la foresta pluviale dell’Amazzonia, uno degli angoli del pianeta con la maggiore varietà e abbondanza di specie viventi. Una terra lussureggiante, fertile e sconosciuta con una biodiversità difficile da immaginare: per classificare le creature che ci vivono servirebbero 400 anni di lavoro e 10.000 pagine di dati e forse non basterebbero.
Nel 2007 nell’area del parco viene scoperta una riserva da 960 milioni di barili di petrolio, per un valore stimato di 7 miliardi di dollari: è una briciola, il mondo la divorerebbe in appena 10 giorni.
Ma è la promessa di un nuovo eden, fatto di sviluppo industriale e ricchezza immediata.
Per la verità il petrolio fu scoperto in Ecuador già nel 1967 e il primo barile fu portato in processione come segno di buona sorte e prosperità. Negli anni che seguirono il petrolio ha portato infrastrutture, ma non ha creato sviluppo; ha finanziato la costruzione di strade, ospedali e scuole, ma non ha saputo lanciare modelli di crescita strutturale e duratura. E naturalmente ha inquinato.
Oggi, quasi 50 anni dopo, all’Ecuador resta la metà delle sue riserve petrolifere, il 20% delle quali giace sotto Yasunì, appunto.
Al momento della scoperta del giacimento di Yasunì si è dovuto decidere se sfruttare le riserve di petrolio secondo un modello di sviluppo tradizionale o lasciarlo lì, inutilizzato, e salvare il paradiso naturale che gli stava intorno. Estrarre il petrolio avrebbe portato finanziamenti immediati, ma anche trivellazione, oleodotti, degradazione dell’ambiente e della qualità della vita. La maledizione dell’abbondanza di risorse.
Furono sviluppati due piani alternativi: un piano A “rivoluzionario” prevedeva di lasciare il petrolio dov’era in cambio di della metà del suo valore come riscatto; il piano B “tradizionale” chiamava in causa un’azienda cinese pronta a dare il via alle perforazioni.
Con l’appoggio straordinario del 95% della popolazione l’Ecuador ha scelto di difendere il proprio patrimonio naturale e si è impegnato a non estrarre il petrolio nascosto se la comunità internazionale fosse riuscita a raccogliere 3,6 miliardi di dollari in 13 anni.
Le Nazioni Unite hanno istituito un fondo per Yasunì su cui far confluire i contributi, il governo di Quito a sua volta li ha utilizzati per alimentare un fondo fiduciario dedicato allo sviluppo di progetti di energia rinnovabile e protezione per l’ambiente.
L’Ecuador sa di combattere una sfida complicata: se il piano avrà successo, potrà dire di aver dimostrato al mondo che un nuovo modello di sviluppo è possibile.
La scelta rivoluzionaria di Yasunì dice che le risorse naturali possono essere salvaguardate oltre che sfruttate, che l’ambiente deve essere conservato e non solo consumato, che le scelte di tutela di oggi sono il seme del rinnovamento di domani. Che la prosperità di un popolo è la ricchezza che avrà – avranno – domani, non solo quella che divora oggi.
Yasunì racconta una storia di coraggio, lungimiranza e fiducia nel futuro: la grandezza di guardare lontano.
Il fondo delle Nazioni Unite per Yasunì