Davide Cavazza | 10 Marzo 2015
L’anno scorso e quello prima ho imparato molte cose. Ho imparato che puoi abbandonare un lavoro che ami moltissimo, nella città più bella del mondo, con uno staff di persone eccezionali che lavorano con te, e con uno stipendio non banale per il terzo settore italiano e un contratto a tempo indeterminato. Follia? Forse.
Il punto è che se sei un Manager, se gestisci cioè in maniera professionale e attenta risorse e persone, se guidi gruppi di persone verso obiettivi dichiarati, magari nel consenso, paradossalmente dipendi da tutto. Dall’ambiente che ti circonda: dalla governance della tua Organizzazione alla Direzione generale. Soprattutto, però, credo tu dipenda dalla tua coscienza. Se ti vengono chieste cose inaccettabili, da applicare senza criterio al gruppo professionale che coordini, se ti viene chiesto di essere complice di un disegno che attacca le persone hai solo due scelte possibili. Accettare o rifiutare.
Non puoi semplicemente lasciare passare la tempesta, voltando con studiata distrazione la testa da una parte. Perché durante quella tempesta avrai avuto un ruolo. Si dice che nessun fiocco di neve si accusa della valanga. E non puoi giocare su tutti i tavoli, se la posta sono le persone. Però puoi decidere di offrire la tua, di testa, se questo è utile al gruppo e se davvero non condividi per nulla la nuova linea organizzativa. E non è questione di presunta o saccente nobiltà d’animo, quanto di integrità morale e professionale, di dignità. Chiedersi perché si è cominciato a fare questo mestiere, e ricordare i giorni e le notti da volontario e quella passione sincera, quel sacro fuoco, può aiutare.
Così può succedere che lasci quel lavoro che molti ti invidiano, magari deluso e arrabbiato. E succede che ti chiedi cosa hai sbagliato, perché da qualche parte doveva essere almeno un po’ colpa tua, no? Forse sei proprio tu che resisti al cambiamento? Pure se quel cambiamento pare folle, pure se vedi distintamente che le scelte sono insensate? Non faresti meglio a ingoiare il rospo, prestarti al disegno e fare un piccolo pezzetto di carriera facile facile? In fondo c’è chi lo fa in modo disinvolto.
Ecco, no. No. Ho scoperto che la mia anima non è cooptabile in un disegno del genere, e non solo in teoria, ma proprio per davvero. Per fortuna, o per follia di mesi poi da passare a reinventarsi il futuro. Già il futuro. Un futuro fatto di consulenze, di contatti, di cassette degli attrezzi da riaprire e reimparare, di necessità di rimettersi in gioco, di colloqui probabili e improbabili, di chiamate attese e inattese. Di fatica. Un tempo in cui puoi scegliere di privilegiare l’amore – se hai la fortuna di averlo, e di poterlo donare e condividere – e di alzare lo sguardo dall’operatività ordinaria, un tempo in cui la filosofia sul vero senso delle cose è tua compagna fidata e anche un serpente che rischia di avvolgerti e stritolarti se non sei in continuo movimento. Puoi ampliare il tuo sguardo, provare ad abbracciare nuove cose, magari cambiare città o addirittura Stato. Cambi per salvaguardare la tua anima, il tuo cuore, lo spirito e l’attitudine con cui ami fare, curare. Cerchi. Altro.
Quando ho scritto il manuale “Campagne per le Organizzazioni Non Profit”, uscito per ASVI nel 2006, ho teorizzato la necessità per noi “Manager del cambiamento sociale” di dovere cambiare, di non potere restare ancorati a posizioni di forza, pena la dispersione grave e definitiva di quella volontà indomita di contribuire a un cambiamento che non può vedere proprio noi immobili! Credo che quell’assunto fosse vero, o almeno per me lo è stato, e ha salvato il mio fuoco e la mia visione. Anche e soprattutto se, col senno di poi, avevate proprio ragione voi.
Ci vediamo. Nel futuro.